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“Nada! Nada! Nada!”, Cigno ci parla del suo nuovo album-manifesto

A distanza di circa un anno dal suo ultimo lavoro “Morte e pianto rituale”, Cigno ritorna con l’album totalmente futurista dal punto di vista sonoro, ma dalle salde radici ideologiche

Con “Nada! Nada! Nada!” Cigno porta una nuova forma di canzone di protesta nel rock italiano che ha ben poco a che fare con la critica sociale tradizionale. Tra racconti di torture, urla di eretici, lamenti di condannati a morte e rumori di catene in movimento, infatti, l’artista romano trova l’ambiente perfetto per l’esposizione delle sue idee radicali e sovversive. Attribuendo un ruolo rivoluzionario – quasi salvifico – alla sua arte, Diego Cignitti trasforma l’impegno politico in suono. La sua musica diventa un’arma potente per la lotta contro la società capitalistica, un mercato discografico che si fa sempre più filisteo, gli abusi in divisa e tutti i maggiori morbi derivanti dal “nuovo medioevo oscurantista”.

Ciao Cigno, bentrovato! In questo disco, dal punto di vista sonoro, ti distacchi completamente dai canoni musicali tradizionali, tanto da rendere difficile l’intercettazione dei suoi riferimenti. Li chiedo a te: quali sono le nuove influenze non convenzionali che ti hanno ispirato per la scrittura di “Nada! Nada! Nada!”?

Penso che per scrivere nuova musica ci sia bisogno irrimediabilmente di prendere ispirazione da contesti extra musicali. Il rassicurante manierismo ci ha stancato ed escatologicamente non credo abbia molto senso. In questo periodo ho trovato ispirazione in alcuni documentari dei primi del ‘900 che ho ascoltato rigorosamente in lingua originale senza sottotitoli.

Non perché conoscessi propriamente le lingue (tedesco, giapponese, russo più delle volte) ma perché volevo portare la mia mente ai limiti dello straniamento: trovarmi alienato in mondo che non capivo. Nella nostra epoca tutti “parlano” ma nessuno “dice”. Sembra che le città non parlino più, che Dio non ci parli più, che lo Stato non dica più niente a nessuno. Tutti sembrano muti nel caos, ed è come se ci fosse stata un’implosione di significanti, un’implosione di volume, di strumenti impazziti. Il risultato è una diffusa sordità. Un safari infernale muto con incapacità di parlare, incapacità di ascoltare. Aggiungo anche che la pratica dell’esicasmo dei padri del deserto mi ha aiutato molto a riconnettermi con l’assoluto, a sentire la voce del mondo: mantra, ripetizioni, profondi pattern reiterati. Ho trovato conforto anche nella cultura rave, nella ricerca dell’estasi, dal teatro surrealista di Ettore Petrolini fino al cinema di Fassbinder.

Sia il tuo nuovo album che il precedente “Morte e pianto rituale” sono accompagnati da un manifesto; da dove nasce l’esigenza di inserire questo allegato? Cosa lo distingue e lo emancipa da un comune comunicato stampa?

Perché penso ci sia bisogno di dichiarare le proprie intenzioni: i nostri pensieri possono spesso essere messaggi sociali. Avevo bisogno del medium del testo in prosa per esprimere determinate emozioni. Come essere umano credo di essere (volente o nolente) soggetto attivo nella polis e non mi posso tirare indietro dall’atto di critica del mondo. Non voglio veicolare i pensieri solo attraverso contenitori superficiali contemporanei come le stories, i reel o i selfie. La comunicazione odierna a suo modo può essere utile ma sento che non ci basti. Come si può mettere un fiume in un bicchiere?

A livello esistenziale ho la necessità di lasciare i miei pensieri su carta senza limiti di battute, in modo discorsivo. E se qualcuno può trovare ispirazione da essi, condividerli o semplicemente sentirsi meno solo leggendoli che ben venga. Ma ancora meglio io preferirei creare dissidi: vivendo nel periodo monco del politically-correct in cui si evita in tutti modi di mettere in scena un sano contrasto, di avere delle sane idee divergenti, penso ci sia bisogno di vere contrapposizioni, dialoghi nel senso più greco del termine. Credo che la nostra claudicante democrazia ne gioverebbe. Incidere in questi tempi il proprio dolore su carta penso sia indubbiamente qualcosa di salvifico.

“Ci permetta sua eccellenza / Se ci siamo affidati alla scienza / Qui c’è strada che non finisca /Nell’abbandono e la morte dei sensi / La ricezione dell’anima attraverso il dolore / Nel nome del padre, del figlio e di tutto ciò che muore” (“Carnaio”). Il dolore è un elemento ricorrente nel disco, che ruolo ricopre nella tua narrazione?

Ho avuto la fortuna di assistere alle esposizioni degli studi di approfondimento sulle intelligenze artificiali, condotti da Gilberto Bartoloni, una delle menti più brillanti dell’underground romano.

Ci ha fatto ascoltare in una sala la differenza tra i corali di Bach prodotti da un’intelligenza artificiale e quelli originali dello stesso Bach. Il pubblico doveva indovinare quali fossero quelli autentici, o quelli generati dal computer. Il risultato è stato straordinario perché la maggior parte degli astanti in sala sosteneva che i corali dell’intelligenza artificiale fossero quelli veri. Invece quelli di Bach fossero quelli artificiali. Ad alcune domande poste loro, sono arrivate risposte sorprendenti. Alcuni hanno risposto che le versioni in cui si percepiva la “perfezione” dovevano essere senza ombra di dubbio attribuite a Bach; invece quelle imperfette e mancanti al computer.

La verità invece era l’esatto contrario. Su questo risultato si può ragionare sul fatto di come sia cambiato il nostro senso del gusto: ossia ci sembra più bello ciò che è perfetto, ciò che è senza errore ci piace. La chirurgia plastica, photoshop, l’autotune, la quantizzazione musicale in griglia. Insomma, l’importanza di apparire perfetti sembra sia diventato un “must” forse anche perché le macchine stanno sostituendo la nostra creatività e inevitabilmente stanno creando dei canoni di bellezza freddi e rigidi.

Se a questo punto la macchina può sostituire un compositore (vedi anche l’ultimo esperimento fatto sulla scrittura di Nick Cave) l’unica cosa che la macchina non potrà mai sostituire è quella traccia di umanità che possiamo trasferire sull’opera artistica tramite il nostro dolore, il nostro disagio. Il dolore di esistere, quel sano “mal di vivere”. L’unica cosa che ci caratterizza come esseri umani penso sia proprio quella capacità di soffrire e raccontare in qualche modo le nostre crepe interiori. La capacità di provare dolore e dunque la capacità di essere imperfetti. Io credo che il riavvicinarsi a sentire il dolore in modo più onesto sia fondamentale.

Come non citare il capolavoro di Byung-chul Han “La società senza dolore”. Questa paura di esporsi, di evitare emozioni pericolose, di non mettersi più alla prova; questo andar sempre cercando la sicurezza laddove invece è risaputo che essa sia inversamente proporzionale alla gioia di vivere. E d’altro canto sentirsi vivi è direttamente proporzionale al rischio che si corre. Io credo che il dolore debba essere riportato al centro delle nostre vite come l’unico combustibile in grado di attivare i nostri sentimenti; di sentire e conoscere il mondo attraverso i traumi; del risveglio della nostra mente attraverso gli errori. C’è bisogno di riconnettersi col dolore: non nel senso masochista o sadico ma bensì ristabilire un contatto con il nostro sacro essere umani.

È interessante il modo in cui nei testi e nel tuo pensiero fondi i principi del fascismo tradizionale con quelli del potere liberista che spesso, invece, vengono separati. La tendenza all’anomia della società dei consumi appare unita ad alcuni elementi oscurantisti “storici”. In particolare, il peso della chiesa cattolica e dell’idea di dio, dal tuo punto di vista, sembrano ancora avere un peso notevole nella cultura moderna. È così? Parlaci un po’ di questo aspetto

Assolutamente, credo che la società dei consumi sia il fascismo contemporaneo che appare però molto più subdolo e sadico. È un fascismo che non possiamo ahimè più lottare perché ci ha completamente inglobati. Non possiamo più dire “non consumare!” perché siamo già noi stessi “consumati”, in quanto “prodotti” del capitale. I social sono giochi che ci vengono dati per intrattenere le nostre giornate: sono gratuiti ma in cambio noi diamo tutte le informazioni sulle nostre vite. Sanno quello che facciamo, ascoltano quello che diciamo, vedono quello che fotografiamo e ad oggi questo sembra sia del tutto legale.

Anche i campi di concentramento erano legali, eppure non possiamo non essere d’accordo che non siano stati etici.

Tutto ciò che oggi succede con i cellulari non credo sia etico.

Siamo diventati prodotti di acquisto, siamo diventati informazioni che vengono vendute alle aziende. Di conseguenza le aziende possono vendere al meglio i loro clienti customizzati.

Siamo piccole scatole di informazioni che muovono algoritmi.

Oggi non si producono più dei veri e propri roghi in cui bruciare corpi ma concettualmente esiste il rogo mediatico delle idee del dissenso, roghi mentali per gli anticonformisti. In un paese come l’Italia in cui regna il bigottismo, in cui la morale cattolica sopprime le idee libere, i nuovi condannati/eretici sono ad esempio due persone dello stesso sesso che non si possono sposare o avere figli. In Iran sono tutte le donne che lottano per l’emancipazione della figura femminile contro l’oscurantismo religioso. Dunque come possiamo non pensare che anche i nostri tempi siano ammalati dal potere: il potere sopprime, cancella e deturpa. Vedi anche le ultime persecuzioni agli anarchici, il continuo sopprimere chi lede in qualche modo l’ordine costituito. Questo disco è dedicato a tutti coloro che soffrono queste condanne moderne e dunque a tutti i condannati eretici moderni.

In “Antéchrist” dici: “Impicchiamo i critici! I direttori artistici! Gestori di locali! Avete ucciso la musica italiana!”. Posta Indipendente vuole fare autocritica: quando, secondo te, è avvenuta la morte della musica italiana? In che modo il giornalismo musicale ha contribuito a questa dipartita? Potrebbe partecipare alla sua rinascita?

Avrei potuto inserire anche “impicchiamo i musicisti” ma non entrava in metrica. Ad ogni modo, credo che il problema sia alla base: dagli anni ‘80 nel mondo dell’intrattenimento si è passati dal famoso e sano indice di gradimento al disastroso numero di ascolti. La grande dicotomia tra qualità e quantità. Questo è il grosso problema: quando un giornale non è autosufficiente, quando una televisione non è autosufficiente dipende dalle pubblicità. Naturalmente poi è facile in quel caso cedere alla tentazione dei numeri: le pubblicità pagano e sovvenzionano rispetto ai numeri di ascolti, ai numeri di views, ai numeri dei click (non certo per la qualità dei contenuti).

Dunque le riviste, i giornali, i periodici, i gruppi musicali, i programmi televisivi, i teatri cedono alla tentazione del numero. Questo è un circolo vizioso senza fine. Articoli triviali, personaggi zotici, contenuti basici e banali. Come non imputare anche alla “velocità” la responsabilità di tutto ciò: vivere in questi ritmi frenetici porta a un abbassamento dell’attenzione, che determina le scelte da parte di chi veicola contenuti verso una qualità sempre più basica, che possa attecchire al primo colpo senza aver bisogno di qualsivoglia ragionamento. I locali di musica dal vivo devono “portare gente al proprio locale”, non “fare buona musica”.

E quindi se i gusti delle moltitudini, per i motivi che abbiamo elencato, sono discutibili, chi se ne importa: che si suoni musica scadente dovunque. La realtà è che nessuno può più farci niente, purtroppo. Siamo diventati tutti funzionari di apparato e dobbiamo eseguire ciecamente ciò che ci viene detto da chi mensilmente ci da uno straccio di stipendio. Senza poter pensare se ciò che ci venga chiesto sia etico o meno. Siamo tutti purtroppo allo stesso tempo vittime e carnefici di questa decadenza culturale.

E forse il vero eretico della società dei consumi non può che essere chi sceglie di avere pochi like sui social, poco consenso sociale, poco denaro. Io penso che questo essere “sfigati” possa essere veramente la più grande prova di coraggio che si può affrontare nei confronti di questo tipo di società malata. Una controtendenza di cui spesso sottovalutiamo la potenziale forza di contagio.

Spesso parli della funzione catartica della musica e allo stesso tempo ti occupi della produzione dei tuoi brani; quanto è difficile unire il “lato tecnico” e il “lato spirituale” dell’arte?

Non penso sia difficile perché credo fermamente che l’etica e l’estetica debbano andare di pari passo. Il fuoco sacro del momento creativo penso debba essere rigoglioso durante il mixaggio come nello scegliere un abbigliamento o la formulazione di un comunicato stampa. A volte la creatività può essere caratterizzata da esercizi rigorosi, e allo stesso tempo durante un mixaggio credo si debba piangere o pregare. Ogni step della comunicazione, dai testi che appunti sul tuo telefono fino al post in cui pubblichi il disco, devono avere lo stesso rigore e la stessa magia. Non si può dividere il lato creativo da quello pratico di tutti giorni.

Etica ed estetica sono la stessa cosa.

Per salutarci ti chiedo quali sono i tuoi progetti per il futuro

Ho concluso questo disco da poco ma già inizio a sentire nuove voci che mi chiamano, altre visioni, titoli per dischi futuri. D’altra parte però voglio vivermi a pieno questo momento di “Nada! Nada! Nada!”.  Gli album si completano anche quando arrivano alle orecchie di chi li vuol sentire e finalmente lì concludono il cerchio della comunicazione: il messaggio torna modificato, ampliato e forse anche corrotto, dal destinatario al mittente. In qualche modo questo disco potrò capirlo solo quando sarà tornato: tramite l’entusiasmo dei concerti, dei messaggi che posso ricevere e anche dalla tua recensione.

a cura di
Lucia Tamburello

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