I Gbresci raccontano il rischio dei “Giochi stupidi”
I Gbresci esordiscono per Border Records con l’album “Giochi stupidi”. Edoardo Baroni, metà del progetto che si completa con Niccolò Barca, ci parla del concept del disco, di Roma e del loro punto di vista sulla trap.
Tra i “Giochi stupidi” dei Gbresci c’è anche la sperimentazione. Nonostante abbiano appena dato il via alla loro discografia, pur rimanendo fedeli ad alcuni elementi che costituiscono la loro identità artistica, si sono già addentrati in generi diversi. Rispetto ai brani raccolti nell’EP “Codici”, pubblicato nel 2021, infatti, abbandonano le atmosfere dark e synth wave per approfondire sia la forma canzone tradizionale che il post punk internazionale. Alcune tracce rielaborano gli schemi tipici del pop italiano per avvalorarli e dargli profondità. “Giochi stupidi” è un groviglio di fili conduttori: gli undici brani sono attraversati da un’evidente ambientazione urbana, un contrasto tra una spiccata emotività personale e un mondo insensibile, il ripudio della società moderna e borghese, e l’impatto di quest’ultima sui rapporti interpersonali.
Partiamo dal titolo: a quali “Giochi stupidi” stiamo giocando? Cosa li rende tali?
Per noi i “Giochi stupidi” sono le cose che nella vita mettono a rischio. Nel nostro caso pensiamo alla musica. Adesso, alla soglia dei trent’anni, stiamo combattendo con la tentazione di lasciare questi giochi molto stupidi e pericolosi per andare a cercarci una strada più sicura. Questo disco ha questo titolo per ricordarcelo.
“L’album “Giochi Stupidi” è una lunga colonna sonora carica di delusione e amarezza verso un mondo freddo e ostile”. L’intento principale di questo lavoro è semplicemente quello di raccontare questo mondo freddo e ostile o è volto a migliorarlo? I vostri brani hanno un intento rivoluzionario?
C’è una ricerca della speranza. Abbiamo iniziato a suonare prima del lockdown e in questo disco ci sono dei pezzi che vanno da quel periodo, in cui avevamo perso il lavoro quindi scrivevamo in modo scuro, a quello presente che è un po’ più positivo per noi. Cerchiamo anche di dare un messaggio di reazione nel disco. Non è solo emo e triste, è un po’ più vitale.
A questo mondo contrapponete “la dolcezza dei rapporti interpersonali e la forza della creatività”. Vi faccio una domanda un po’ esistenziale: l’amore e l’arte, secondo voi ci salveranno? Se sì, in che modo?
Secondo me, se uno ha il privilegio di averli nella propria vita è più o meno salvo. Direi che, a livello individuale, ci salvano sempre, ci salvano tutti i giorni l’amore e l’arte. A livello collettivo è più difficile perché bisogna costruire dei movimenti.
L’arte, a livello individuale, secondo voi, non ha un potere rivoluzionario se non ha una scena ad appoggiarla?
A livello individuale ha un portato rivoluzionario. Chiunque potrebbe rispondere di aver avuto una rivoluzione data dall’arte o dall’amore. A livello collettivo bisogna creare una comunità. Ci vuole del successo, però spesso chi ha successo non cerca di porsi in modo rivoluzionario, almeno in Italia.
Roma è centrale nei vostri testi, ma in che misura? Possiede caratteristiche simili a tutte le metropoli italiane o ha delle peculiarità che influenzano particolarmente la vostra musica?
Noi viviamo in un rapporto di amore sconfinato, ci sentiamo, in modo diverso, molto legati alla città e la viviamo nel profondo. Abbiamo avuto la possibilità di andarcene, ma viviamo ancora qui. Roma ha il problema di essere questa città meravigliosa che ti lascia senza fiato per la sua bellezza, per il suo clima e anche perché lì ci sono le tue radici, ma che ti fa impazzire per quanto è immobile, seduta e diffidente. È centrale proprio perché genera conflitto. Il nostro rapporto con questa città è conflittuale e pieno d’amore, ma anche pieno di dubbi e quindi da lì nasce l’arte, dal conflitto.
Nel penultimo brano dell’album dite: “L’indie ha salvato la musica italiana, ma chi ci salverà dall’indie? La trap”; che ruolo hanno avuto/stanno avendo queste due scene nel vostro percorso artistico? La scena romana degli anni ’10 ha avuto un peso particolare sul vostro percorso?
Solo su una parte del percorso, solo su questo album, perché in questo disco ci sono più canzoni, c’è più melodia. Mentre invece per la prima parte abbiamo guardato soprattutto ad ascolti esteri. Già giocavamo con la trap perché c’è un po’ di elettronica, un po’ di rap nella nostra musica. Quando abbiamo scritto quel pezzo la trap era ancora il genere che andava più di moda, quindi la provocazione di quel pezzo sta nel dire: abbiamo avuto il periodo indie, adesso è arrivato il periodo trap ed è un continuo scalzarsi di moda.
Lo vedete più come un genere modaiolo che avanguardista?
Secondo me ha la sua avanguardia, è stato un genere d’avanguardia. Poi è stato molto cooptato, alla fine quegli hi-hats trap si sentono anche nei pezzi di Baby K quindi è stata un po’ normalizzata, però, sì, è stato di rottura. È di quello che parla quella canzone. Magari non è chiarissimo, però la provocazione di quel pezzo è: alla fine la borghesia (perché quel pezzo elenca tutti i miti borghesi), la società borghese, ingloba le avanguardie e le trasforma in mode. Quella è la provocazione de “La Trap”.
Avete dei live in programma?
Abbiamo un release party il 6 luglio all’ EUR Social Park, poi presentiamo a Milano il 7 luglio all’Ex Macello e poi abbiamo il 16 luglio al al Pinewood Festival. Queste sono le date ufficiali e poi ne arriveranno altre.
Come vi presenterete sul palco? Avete cambiato formazione o è sempre la solita?
Siamo sempre in quattro. La batteria è vera e abbiamo preso un bravissimo bassista questa volta. Abbiamo adattato l’ambiente live al disco: è più vero, un po’ più suonato, un po’ più rock.
a cura di
Lucia Tamburello