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Problemi psichiatrici e solitudine: gli Old Skull parlano di “Limbo”

“Limbo” è il nuovo singolo degli Old Skull con Pierpaolo Capovilla pubblicato in sostegno dell’Onlus romana Solaris che dal 2002 sostiene le persone che soffrono di disturbi psichiatrici

Con “Limbo” la band/collettivo The Old Skull si discosta dall’ambiente metal e rapcore per addentrarsi nel mondo del rock alternativo italiano con l’aiuto di Pierpaolo Capovilla. Mantiene, però, l’impegno che da sempre ha contraddistinto il progetto. Luca Martino (batteria), Francesco Persia (chitarra), Emanuele Calvelli (basso), Alex Merola (chitarra) e Snifta (DJ), questa volta, affrontano il tema della salute mentale, della solitudine e dell’incomprensione che spesso avvolge chi è affetto da malattie mentali. Il brano è accompagnato dal videoclip creato da Valerio Persia.

Facciamo quattro chiacchere con Luca, il batterista della Band

Partiamo col parlare della Onlus Solaris: come mai avete scelto di sostenere proprio questa associazione?

All’inizio cercavamo semplicemente un partner che potesse veicolare meglio questo brano per dargli anche una valenza umanitaria. Un output concreto.

Ma andando pian piano a scavare, ci siamo resi conto che in Italia – così come a livello internazionale – non ci sono realtà “nazionali” che forniscono supporto per quanto riguarda le emergenze di carattere psichiatrico e psicologico.

Esistono invece tutta una serie di realtà più piccole, spesso formate da volontari e professionisti – come ad esempio Solaris – che si rimboccano le maniche e fanno fronte a questo tipo di esigenze ed urgenze.

Tra le varie associazioni che avevamo trovato su Roma ci è sembrata la migliore a livello strutturale e organizzativo. Li abbiamo conosciuti di persona, ci siamo fatti raccontare un po’ della loro storia e di cosa si occupano, e ci siamo resi conto che loro erano in grado di essere quell’output che cercavamo per il brano. Persone di cuore, che spesso hanno vissuto il problema della malattia mentale in maniera diretta e indiretta, a testa alta e sempre con l’attitudine di chi cerca una via d’uscita dal Limbo.

“Limbo” è più un brano di protesta rivolto alle istituzioni o più un brano per sensibilizzare il vostro pubblico?

Diciamo che il brano ha vari livelli di profondità e di lettura (ma escludiamo le istituzioni da questo discorso, poiché Limbo è un brano che si rivolge esclusivamente alle persone):

Da una parte troviamo coloro che hanno vissuto la malattia mentale in prima persona, lasciandosela alle spalle (o più probabilmente convivendoci).

Dall’altra troviamo chi è nel pieno della lotta (il presente).

Infine, le persone non direttamente coinvolte dal problema (e quindi la sensibilizzazione, il futuro).

L’intento del brano è quello di andare a lavorare emotivamente su queste tre aree, dove chi ha combattuto e ha vinto la sua guerra, anche a distanza di mesi/anni, può ritrovare nelle liriche del brano un sunto della sua storia (e magari una ritrovata consapevolezza).

Chi è nel pieno della lotta invece, ritrovandosi in un’accurata descrizione del problema, può sentirsi meno solo (immedesimandosi, e sentendo che si sta parlando di un’esperienza umana condivisa).

Il messaggio per chi invece non conosce direttamente il problema (o lo conosce indirettamente), è questo:

“non voltarti dall’altra parte, questa cosa riguarda tutti.”.

La musica in questo senso quanto aiuta?

La musica per me è sempre stata un’ancora di salvezza. Soprattutto questo progetto.

Negli anni infatti ho fatto parte di parecchie band, ma nessuna ha mai avuto una carica emotiva alle spalle come quella degli Old Skull.

Io la malattia mentale la conosco bene, ho quasi quarant’anni e ci convivo da quando ne ho venti.

Nel 2012 ebbi il mio primo episodio depressivo grave, e per i successivi quattro anni mi sono trovato a combattere come un leone cercando in tutti i modi di stare meglio.

Nel 2016, quando nacque la band, stavo attraversando un periodo davvero difficilissimo, dal quale sembrava non esserci nessuna via d’uscita… nonostante le cure, i controlli e la terapia ero peggiorato.

Solo nel 2019 avrei scoperto che la mia patologia non era stata inquadrata correttamente, e che fondamentalmente se avessi continuato le cure che stavo facendo non avrei mai risolto il problema.

Li dove falliscono le medicine e i dottori c’è bisogno di un intervento “divino”, e quindi ancora una volta chiesi aiuto alla musica.

Quando sei nel buio più totale e non capisci più niente, hai questa cosa da sfruttare come bussola, qualcosa che ti indica sempre il Nord.

Che ci sia un sole che spacca le pietre o uno tsunami all’orizzonte: il Nord è il Nord.

A mio avviso, nella vita è fondamentale attribuire importanza a qualcosa di artistico, qualcosa che si eleva al di sopra del mero lavoro e della piattezza che a volte la quotidianità ci impone. 

Chi ha avuto, o sta avendo a che fare, con la malattia mentale lo sa bene: spesso è solo li che si trova sollievo. Per cui (mi permetto di dare questo consiglio anche a chi invece sta conducendo una vita senza grossi intoppi) date una grandissima importanza a ciò che fate, e fate in modo che quel qualcosa diventi il vostro faro nell’oscurità. Il vostro Nord.

Però la musica o l’arte in generale, correggimi se sbaglio, ti dà l’opportunità di sfogarsi contro quell’ambiente di cui parlavamo prima che stigmatizza e ghettizza chi ha problemi di salute mentale…

C’è un discorso a monte da fare quando si parla di stigma:

il malato diventa bravo a nascondere quasi quanto il sano è bravo a non vedere.

Siamo in tantissimi.

Solo in Italia circa una persona su tre ha dichiarato di aver sofferto (o di soffrire) di una malattia mentale.

Possiamo sederci in un bar con una decina di persone e chiedere ad alta voce:

“chi di voi ha mai preso uno stabilizzatore dell’umore?”.

Puoi stare tranquilla che almeno un paio tra loro sapranno benissimo di cosa stiamo parlando…

Ma allora, visto che siamo così tanti e che il problema è così diffuso, perché parliamo di stigma?

Perché la malattia mentale spaventa. Perché non c’è un’esperienza umana collettiva rispetto a questo.

Se non ci sei passato, non puoi avere idea di cosa stiamo parlando. E non è una frase fatta…

Come umani e come “esseri sociali”, quando qualcuno ci racconta della sua febbre ci immedesimiamo e lo capiamo al volo, semplicemente perché l’abbiamo avuta anche noi. Ne abbiamo esperienza, la conosciamo.

Il dolore alle ossa, il mal di gola… sappiamo anche come aiutarlo e come farlo stare meglio.

Ma cosa succede quando non abbiamo esperienza comune?

semplice: io che ho un problema ho paura di non essere capito, tu che non hai quel problema sei spaventato da qualcosa che non puoi comprendere (ma di cui comunque percepisci la negatività).

Il risultato è che chi sta male si isola, o viene allontanato.

Stiamo quindi parlando di solitudine. Il male peggiore.

Poi ci sono i modelli sociali:

dobbiamo essere sempre super performanti, belli, potenti, scattanti, furbi, preparati, resilienti, umili, superbi, coraggiosi, reattivi, bla bla bla bla bla…

Se non aderisci a quella lista di aggettivi sei out. Fine.

Ce ne vuole per trovare un altro essere umano simile a te, qualcuno che non ha idea di che farsene di quella stupida lista.

E ancora solitudine.

In questa società non c’è mai spazio per vivere le emozioni, ed è proprio li il problema:

Ho perso i miei genitori.

“Non c’è tempo per piangere, devi reagire!”

“Torna subito a lavorare, devi produrre! Distraiti! Non pensarci!”

“Non farti vedere debole dai tuoi figli (cosa penseranno? devo dare l’esempio…)”

“E tua moglie? Vuoi forse che pensi che non hai spina dorsale?”

Ecco un breve ritratto di come in Occidente affrontiamo un lutto importante come la perdita dei genitori, senza dare 10 minuti a noi stessi per capire cosa cazzo è successo. Senza darci il tempo di elaborare una quantità immensa di informazioni complesse. Mettiamo tutto sotto il tappeto, per tornare di corsa sul nostro tapis roulant, e riprendere in fretta e furia da dove avevamo lasciato.

Poi, a distanza di un paio di anni, ti prende un attacco di panico devastane mentre stai guidando in autostrada, che il cuore sembra esserti caduto in una vasca di lava.

Le emozioni, soprattutto quelle negative, vanno vissute… lasciate andare. Non bisogna far finta che non siano mai esistite, tappezzandoci la testa con stupidi slogan motivazionali.

Se serve la musica e l’arte? Cazzo si.

Serve tutto ciò che ci mantiene umani e che ci fa battere il cuore.

Credi che l’hip hop risenta di questo fattore, c’è un po’ di machismo?

Nel 2023 non credo si tratti più di machismo, è più il fatto che l’hip hop ha di base due direzioni:

  1. Il pezzo di stile: in cui il rapper ci deve per forza dire quanto sia più figo rispetto agli altri e quanto il suo flow sia metricamente impareggiabile.
  2. Il pezzo da musicista: dove il rapper si apre e affronta tematiche esterne al suo ego (politica, amore, società, ecc…).

Quando si ascolta un disco rap bisogna tener conto di questi due fattori.

“Indignarsi” quando arriva il pezzo di stile sarebbe un po’ come incazzarsi quando su un pezzo rock arriva l’assolo… fa semplicemente parte del gioco. Se sei un rapper, devi saper mettere al centro il tuo ego per poter fare quel tipo di brano. L’ascoltatore, dall’altra parte, deve sapere che quando il rapper sta facendo il coatto sta facendo il suo assolo di chitarra.

Un tempo l’immaginario hip hop era certamente quello del duro/gangsta/king ma oggi facciamo tutti i conti con un mondo diverso. Una vita diversa.

Ci sono rapper famosissimi che recentemente hanno messo in bella vista le loro fragilità: Salmo tempo fa ha dichiarato di aver passato un periodo terribile, non negando di esser dovuto ricorrere alla terapia e ad un ciclo di psicofarmaci per risolvere il problema. Marracash invece ha scoperto di avere una lieve forma di bipolarismo, e anche lui, ha parlato di quanto la terapia lo abbia aiutato e supportato.

Tutte cose che hanno inevitabilmente influenzato (a mio avviso positivamente) la loro produzione artistica.

In conclusione, credo che il rap stia vivendo un bellissimo dualismo: se da una parte mantiene la sua matrice “ego/arrogante” dall’altra tende maggiormente la mano ad orizzonti più empatici.

Più umani.

Da sempre parlate di temi sociali, pensi che la stessa attenzione ci sia anche nell’ambiente circostante o che si tenda sempre di più all’individualismo?

L’importanza della salute mentale è un tema che ci riguarda da vicino sempre di più.

Gli artisti di solito, grazie alla loro sensibilità, sono sempre i primi a captare i cambiamenti sociali (cosa che li porta alla naturale urgenza di produrre qualcosa che si traduca in comunicazione).

Negli ultimi cinque anni ho conosciuto un sacco di musicisti, anche famosi, che hanno avuto problematiche simili alle mie. Persone che per una vita avevano dovuto “spaccare a tutti costi”, hanno poi conosciuto la depressione e hanno scoperto che la vita a volte ti dà delle bastonate per cui tu ti rendi “davvero” conto che ti puoi fare male. Per la prima volta in vita loro, hanno davvero toccato il fondo.

Ci vuole tempo per rimettere insieme i pezzi… ma questa presa di coscienza, che passa inevitabilmente per una grossa quantità di dolore, se la sai prendere dal lato giusto ti fa vedere le cose sotto un punto di vista totalmente inedito: con molta più gratitudine e consapevolezza, con la voglia di aiutare il prossimo.

Credo che gli artisti stiano andando verso una direzione di diffusione del messaggio e aiuto.

Quando possono e come possono.

Per cui credo che ci sia un’apertura in tal senso.

Mi è sembrato che “Limbo” si sia completamente distaccato dall’hip hop e si sia avvicinato molto al rock alternativo; è così? Questo cambiamento è dovuto alla collaborazione con Capovilla o è un’apertura del collettivo verso altri generi?

Un po’ a tutto quello che hai detto.

Sì, per questo brano ci siamo discostati dalla nostra matrice rapcore, spostandoci verso l’alternative rock italiano. Veniamo dagli anni ’90, dove le collaborazioni tra vari generi erano all’ordine del giorno. La nostra idea per il futuro è quella di aprirci sempre un po’ di più ad altre sonorità, ad altre situazioni andando poi a toccare un po’ tutte quelle cose che per noi sono state importanti negli anni (indipendentemente dal genere).

Capovilla è stato semplicemente un grande, perché, oltre ad aver accettato di collaborare con dei “Signor nessuno”, ha anche sposato la causa.

È davvero bello riscontrare negli artisti che hai sempre amato le qualità umane che inconsapevolmente gli hai sempre attribuito. Spesso si può rimanere delusi, soprattutto quando idealizziamo i nostri idoli, ma Pierpaolo è una persona bellissima: ancora incazzato, ancora motivato e fottutamente professionale!

È stato bellissimo vederlo lavorare in studio. 

Questo brano ci è venuto così, voleva essere un brano alternative rock in italiano sulla scia di quello che poteva essere una roba dei primi Afterhours, Marlene Kuntz… insomma: voleva collocarsi esattamente lì.

Pierpaolo in questo è stato l’uomo giusto al momento giusto.

Quali sono i vostri progetti futuri?

I progetti sono tanti. Durante il Covid abbiamo registrato tantissimo materiale che stiamo raffinando e sistemando.

Stiamo cercando di capire se fare un disco come il primo, ovvero di collaborazioni, oppure magari due EP con degli artisti principali. Sicuramente fermi non ci stiamo. Ci piacerebbe davvero trovare un cantante fisso o comunque fare un progetto un po’ più “racchiuso” in maniera da poter andare un po’ più in giro dal vivo. Questo è l’obiettivo.

a cura di
Lucia Tamburello

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