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“Musica dal morto” in una viva egemonia neoliberista – l’intervista a Vipra

Un artista che pubblica un disco per una major ha la libertà di criticare il sistema musicale e istituzionale odierno? Ci risponde, direttamente e indirettamente, Vipra

“Musica dal morto” è il secondo album di Giovanni Vipra pubblicato per Asian Fake. Ispirandosi sia nei suoni che nel linguaggio alla new wave post punk inglese, in dieci brani, ognuno dedicato ad un artista scomparso, il fondatore del collettivo Sxrrxwland concentra tutte le sue idee sull’attuale struttura economica e culturale italiana.

Cosa ti porta da “Simpatico, singolare, in cerca di amicizie” a fare “Musica dal morto”?

È stato il fatto che io abbia voluto fare un disco che fosse un pochino di più facile ascolto e anche un po’ più orientato verso il pubblico, ma anche dal fatto che mi piace sperimentare, mi piace la musica in una maniera che fa sì che non voglia fare lo stesso prodotto per due volte anche se nel contesto musicale premia. Se gli ascoltatori ti riconosco come quello che fa le canzoni tristi o le hit estive, ovviamente è più facile collocarsi in una nicchia. A me interessa relativamente questa cosa, preferisco proporre delle cose diverse al pubblico. In questo caso volevo vedere cosa sarebbe successo se avessi proposto in Italia un trend che in realtà all’estero è abbastanza forte. Fare la musica con un certo sound che in Italia non viene minimamente considerato che è il punk – ma non quella cosa pop punk, un po’ alla blink-182, di cui ci sono diversi esponenti, ma il punk moderno che fanno gli Idles, che fanno i Viagra Boys, etc… – e metterci i contenuti che a me stanno a cuore, ma che stanno a cuore anche a questa scena.

Dei contenuti ironici, veicolati in una maniera contemporanea, che hanno un sacco a che fare con la politica, con le posizioni su tantissime cose che ci riguardano da vicino ogni giorno. Questa cosa, dalla discografia, ma anche dal pubblico, viene accolta in qualche maniera, quasi con disagio. La cosa che volevo fare io era proprio questa. Mi piace il fatto che si possa fare dell’arte che metta a disagio qualcuno piuttosto che fare qualcosa che lo accompagni e basta. Era esattamente lo specchio di quello che ho fatto con il primo album, l’ho voluto fare anche con il secondo.

Come reagisce dal vivo il pubblico al post punk fatto da un artista italiano?

Reagisce super bene e questa cosa non me l’aspettavo. È un disco che vive molto di più live che in streaming: questa è una cosa che invece mi sarei aspettato. Nelle persone c’è tantissima voglia di muoversi, di stare a contatto fisicamente tra di loro, probabilmente anche per un’inversione di tendenza dagli anni passati rispetto ai quali non si poteva fare un sacco di roba. E reagisce molto bene a tutto quello che ha a che fare con lo spettacolo, alle cose che dico, sia nei testi che tra un brano e l’altro. Penso che ci sia un interesse e anche una buona disposizione da parte del pubblico italiano nei confronti di questo genere, di queste sonorità, data dal fatto che c’è un’intero sistema di comunicazione che non si preoccupa del fatto di farlo arrivare al pubblico generalista.

La musica italiana tendenzialmente è musica innocua che, anche nelle sue declinazioni rock attuali, non parla di niente che non sia “voglio fare festa”, “voglio stare con le ragazze” (perché la musica per il 90% passa praticamente dagli uomini) e spensieratezza, che sono tutte cose che vanno benissimo, contro le quali non ho nulla, sono cose che ho scritto anche io, però non possono essere le uniche presenze all’interno del panorama. Molto spesso, si tende a pensare che questo sia quello che sceglie la gente, ma non è così perché la gente non sceglie, ma guarda le playlist, si fa “imboccare” della roba e la roba che gli viene imboccata è esattamente questa qui.

Sì, c’è una buona esposizione e probabilmente ce ne sarebbe di più se ci fosse la possibilità di esporsi un po’ di più.

Le reazioni date dalla pubblicazione di questo lavoro corrispondono a quelle che ti aspettavi oppure c’è stato qualcosa che ti ha sorpreso?

Non mi aspettavo che ci fosse un outrage, indignazione o che qualcuno stesse a remarmi contro per le cose che dico. Ormai il modo più semplice di non dare spazio a qualcosa non è criticarla, ma proprio ignorarla. non mi aspettavo che il giorno dopo la Meloni avrebbe twittato indignata. Anche perché magari le cose che tento di far passare sono un attimino complesse e non è sempre facile coglierle. Mi rendo conto che può essere anche un mio limite. Per cui, no, io dal pubblico italiano che è stato educato scientificamente negli anni all’indifferenza e al farsi dare dei prodotti che sono facilmente decifrabili e fanno una narrazione del mondo ben precisa, non mi aspettavo alcuna reazione diversa da questa.

Poi la reazione che ho avuto da chi mi segue, da chi mi vuole bene – c’è una fetta di pubblico nutrita che è così – è stata quella di essere contenti anche di un mio cambiamento in questo senso perché ho sempre abituato chi mi ascolta al fatto che mi piaccia fare tante cose diverse e non una sempre. Ha dato ragione alle mie aspettative, però le mie aspettative erano tutt’altro che positive quindi non saprei come identificare la cosa però sì, diciamo che la risposta breve è sì.

Il tuo manifesto, in particolare l’aspetto che riguarda la musica underground italiana, in qualche modo deriva dalla crisi che c’è stata durante il lockdown?

Diciamo che il lockdown ha accelerato un processo che già stava avvenendo. Non è che ho desegretato dei documenti, dico semplicemente che i soldi, la possibilità di avere attenzione e mezzi sono concentrati in un top 0.1% degli artisti italiani che detengono tutte queste quote di potere, che sono ben contenti di detenerle e tutt’alto che intenzionati a cederle e gli altri artisti, che prima avevano degli spazi intermedi – che potevano essere alcuni festival indipendenti, i live club e il resto dei locali – non ce li hanno più e anche quando li hanno, sono degli spazi che non gli garantiscono crescita.

In Italia, o fai i talent o fai Sanremo oppure è difficile che tu ti muova da dove sei…oppure devi fare rap, ma devi stare in una nicchia di persone che hanno la possibilità di farti crescere. Ci sono gli artisti per cui dici “Ah, non è famoso come merita”, “Perché questo artista non lo conosce nessuno?”(questa è una frase che mi sono sentito dire tantissime volte su un sacco di persone) e dipende dal fatto che, come in tutte le cose della nostra economia, della nostra società, il potere si è mosso, si è concentrato sempre di più su una fascia di popolazione. Quei piccoli poteri, quei piccoli feudi che si erano creati nelle fasce intermedie o anche più basse sono stati annientati o comunque parlano con una voce molto più bassa di chi ha il megafono televisivo, web, radiofonico e, di conseguenza, questa è la situazione.

Ci sono persone per cui fare musica è insostenibile solo perché hanno un altro lavoro, persone che smettono proprio perché la musica non è più sostenibile per loro, e artisti che prendono 80/90 mila euro a data e sembra che esistano solo loro in questo Paese.

Nell’album critichi sia il sistema istituzionale che quello creativo/commerciale, è evidente che nella tua prospettiva le due problematiche siano correlate, ma chi influenza chi?

Il sistema musicale è un megafono al servizio del sistema istituzionale. Gli artisti, più o meno coscientemente, hanno accettato una posizione di “guardiani” di questo sistema e in cambio hanno avuto il premio della visibilità, del denaro e del successo. Questo te lo testimonia il fatto che c’è stato un cordoglio enorme ed esplicito per la morte di Berlusconi da parte di tantissimi rapper e che, anche quelli che hanno avuto un po’ la voce fuori dal coro, sono stati costretti a fare marcia indietro e a scusarsi pubblicamente.

Te lo testimonia il fatto che moltissime personalità musicali hanno espresso, non soltanto apprezzamento per l’attuale governo, ma anche più di una volta posizione fasciste. Qualche anno fa c’era chi invocava le manganellate sui ragazzini che danno fastidio sul lungomare (sempre rapper). Perché questi artisti sono stati presi scientificamente per essere degli esemplari di una certa popolazione dell’Italia chiassosa, che semplifica la realtà, che odia con molto gusto tutti quelli che sono diversi da lei, e messi su un piedistallo in maniera che si potessero riconoscere in loro quante più persone possibile e che venissero esclusi dal dibattito tutti gli altri.

Quindi molti artisti, in cambio di spiccioli, sono diventati i cani da guardia del potere. Anche quando fanno la polemica, spesso, fanno slacktivism, questo attivismo poco interessato e poi finisce lì. Non sono attivisti che poi parlano e fanno informazione, fanno slogan per il tempo dello spot, poi finisce lo spot e finisce anche lo slogan. La musica adesso è un prodotto evidente e anche esplicito del potere costituito, che serve esattamente per consolidare il potere costituito.

Riguardo la fascia di artisti che rimane “genuina” (se esiste), addentrandoci un po’ nella filosofia, pensi che debbano ricoprire ruoli istituzionali? Hai una visione “zappiana” della politica?

“Dovrebbero” implica una sovrastruttura che io non possiedo. Io non penso che le cose dorebbero stare in una certa maniera o in un’altra. Penso semplicemente che ci siano delle pratiche “sane” e delle pratiche che hanno degli effetti “malati”. Diciamo che guardare il consolidamento di un sistema – è dimostrabile – che sta distruggendo il tessuto sociale, creando tantissimi problemi a livello psicologico, a livello di sussistenza, ma anche al tessuto biologico del pianeta, per me, non può essere una pratica positiva. Lo spazio che “dovrebbero avere” queste persone ha senso che ce l’abbiano in un momento in cui, per una serie di fenomeni che sono intervenuti, il dibattito si è stretto al minimo, le persone non riescono ad avere attenzione nei confronti delle cose per più di un tot di secondi?

Queste cose sono tutte il frutto di pratiche che sono state monetizzabili e tutto quello che è monetizzabile ha più diritto del resto di avere spazio. Non c’è il terreno per cui questa cosa avvenga. Quindi prima ancora di parlare di opportunità o meno che questa cosa accada, probabilmente si dovrebbe parlare del “è possibile che questa cosa accada?”. No, non lo è, ed è più facile – per usare una parafrasi di Fischer – immaginarsi la fine dell’umanità piuttosto che l’inizio del dibattito. È difficile immaginarsi che da questa pratica si torni indietro. È più facile immaginarsi che la cosa vada avanti e che vada peggiorando sempre di più.

Gran parte delle persone non è più in grado di esprimere un pensiero sul perché una cosa dovrebbe essere in una maniera o in un’altra. Ieri, tra la gente che cantava “Chi non salta comunista è”, hanno condotto un’intervista in cui si chiedeva : “Tu sei d’accordo con il sistema neo-liberista e il modello economico incarnato dalla morte di Silvio Berlusconi?”. Il 90% di queste persone non sapeva cosa fosse il sistema neo-liberista. Queste persone detestano una categoria sociale, i comunisti, che non hanno bene l’idea di cosa siano, di identificare in chi, e amano un sistema economico del quale non conoscono le dinamiche. Come faccio io a dire che ci dovrebbe essere uno spazio per delle persone che impongono l’idea che siano necessari dei discorsi complessi in un momento in cui i discorsi anche molto semplici non vengono capiti? Non c’è proprio la possibilità.

In riferimento ad una frase del ritornello di “Mr. Postar” “Lo senti questo suono che monta? È il rumore dell’unione che fa la forza”), nell’esporre le tue idee, ti senti più un portavoce o una voce fuori dal coro? Senti che le tue idee sono condivise da altri artisti? Ti senti parte di una scena?

Sì, tantissimo, ma condivisi anche da una parte sociale. Gli artisti di quella parte sociale non hanno spazio e quindi è come se non esistessero, ma esistono senza dubbio. Non sono una voce fuori dal coro perché ci sono tante persone come me e non sono un portavoce perché non mi metterei mai su un piedistallo. Non credo che ci sia bisogno di altre persone su altri piedistalli, c’è bisogno di un’azione collettiva per cambiare un po’ le cose, non che uno guidi la massa. Se no si finisce sempre con quello che diventa il potere costituito. Se un cambiamento non è collettivo, non è un cambiamento, è un’oligarchia.

“Perché non trovi un lavoro serio?”: auspichi al fatto che la musica o l’arte in generale diventi un lavoro serio? Secondo te un artista dovrebbe essere trattato come un lavoratore?

Su questo ci sarebbe un discorso lunghissimo che non farò su quello che per me è il lavoro e l’opportunità o meno che il lavoro abbia questa dimensione di unico modo tramite il quale le persone possano trovare la dignità umana. Tralasciando questa parentesi abbastanza complicata, io penso che l’artista non sia un lavoro serio perché l’unico modo in cui il lavoro di artista può essere dignificato è quando l’artista raggiunge l’apice del successo perché quest’ultimo, letto attraverso una lente misurabile dei numeri streaming e dei soldi, è l’unico parametro attraverso cui il grande pubblico è stato abituato a leggere la dignità di qualcosa.

Tu puoi fare anche quel lavoro considerato più umiliante del mondo però, se quel lavoro ti fa guadagnare tanto e ti fa essere esposto ad una grande quantità di persone, troverai sempre una parte di gente disposta a giustificarti o a difenderti. La risposta che senti molto spesso quando si parla di “questa persona guadagna facendo questo” è: “Provateci voi a farlo, se non ci riuscite siete dei falliti”. Ormai, così come si parla di comunisti e di democratici, si parla di falliti e di vincitori nel mondo. Ci sono tutte queste categorie che non significano niente, questi macro-contenitori, “noi” e “loro”, in cui non si capisce chi c’è dentro e che cosa significano bene.

Quindi il lavoro di artista è degno e dignificato per una piccolissima percentuale di persone, non lo è per tutti gli altri perché noi artisti non riusciamo a fare gruppo in maniera da richiedere il rispetto che meritiamo. Siamo molto più interessati a cercare di entrare in quella piccola percentuale piuttosto che aiutare la grande percentuale. Nel lavoro artistico non lavorano solo i cantanti che vediamo sul palco di Sanremo: lavorano i musicisti, gli strumentisti, i tecnici audio, delle luci, ecc…una quantità di figure che sono tutt’altro che dotate di una dignità professionale in Italia, che sono tutt’altro che in grado di far sentire la propria voce (pensa a quello che è successo quando è scoppiato il Covid e si chiedevano dei sussidi e dei modi per rendere sostenibile la vita di chi non poteva esercitare il proprio lavoro). Auspico che la musica diventi un lavoro perché “un lavoro serio” è il modo che ha di intenderlo qualcuno a cui questo sistema va bene così. In “Mr. Popstar” parlo come queste persone che detesto. Il lavoro è lavoro, non è che ce ne sia uno più serio di un altro.

Pensi che all’estero la situazione sia diversa?

All’estero la situazione è diversa perché il pubblico è più grande, è normale. Prendi un Paese come gli USA in cui sono 300 milioni di cristiani, anche se ti ascoltano in 20/30 mila hai la possibilità, comunque, di crearti la tua nicchia. Ma è proprio sbagliata, secondo me, a monte, l’idea del mercato musicale che tratta la musica come merce. La musica non è merce. Non puoi trattarla come se fossero scarpe, non perché la musica sia meglio delle scarpe, ma perché sono due cose diverse. Non si producono alla stessa maniera, non si dovrebbero consumare alla stessa maniera. Il discorso è troppo più complesso per ridurlo a “è un prodotto”.

Nel momento in cui la tua stessa etichetta discografica ti dice: “La musica è intrattenimento, tu devi intrattenere”, come può cambiare questo sistema di pensiero? Non si può. Io lo dico così, per il gusto di rompere le palle, perché chi mi ascolta mi dice: “Ah, sono d’accordo” oppure “Non sono d’accordo”, ma non con la pretesa di cambiare niente. È impossibile, è un sistema così sovradimensionato da non essere nelle mani di nessuno. O collassa, c’è una crisi tale da tornare indietro di 500 anni per cui il sistema musicale si aggrega oppure un cambiamento in questo senso è inimmaginabile.

Come concili il fatto di lavorare sotto una major e il fatto di avere questo manifesto importate?

È lo stesso discorso di chi dice che non si può fare attivismo se hai un IPhone. Cercare una critica nei confronti dell’individuo quando è necessario un cambiamento di polity da parte di chi detiene il potere economico, è proprio fuorviante per quanto mi riguarda. “Ah però tu prendi i soldi da una major”. Sì, ma io vivo in un sistema capitalista, neoliberista, nel quale ho bisogno di denaro per esistere, non per vivere, proprio per la mia esistenza come essere umano che sia nota alle istituzioni che regolano tutta la società.

Se io non mi piego a queste regole, anche per cercare di sconfiggere il gioco, non posso fare niente. Siccome esiste una ribellione istituzionalizzata che ha creato il capitalismo, l’unica cosa possibile è proporre una ribellione non istituzionalizzata. Ho fatto delle fanzine per promuovere il disco in cui ho radunato fumettisti, autori, autrici, fotografi…con i soldi della promo le abbiamo stampate. Quelle fanzine erano acquistabili con una donazione libera che è stata data tutta ad Ultima Generazione. Sto in una major perché mi permette di avere una piccola economia di sussistenza, però devo starci con una posizione che sia compatibile con il mio impianto morale, politico.

a cura di
Lucia Tamburello

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