Filippo Nencioni presenta il suo nuovo album
Esce il 31 marzo “Pacco Tombacco”, il nuovo album del cantautore toscano Filippo Nencioni interamente autoprodotto
Filippo Nencioni, musicista di Follonica classe ’92, ci porta alla scoperta del suo primo album “Pacco Tambacco” pubblicato a distanza di un anno dall’uscita dell’EP d’esordio “Stregorama”.
Parliamo direttamente con lui del suo percorso artistico:
Ciao Filippo, benvenuto! Iniziamo a conoscerci meglio: quando e come hai iniziato a fare musica?
Ciao amici di Posta Indipendente. Beh, da che mi ricordo ho sempre voluto cantare e suonare la chitarra davanti a qualcuno. A undici anni durante una gita scolastica ho scritto la mia prima canzone che era un pezzo rap: ero in fissa con gli Articolo 31 dal momento che a nove anni decisi di acquistare l’album “Domani Smetto” per regalarlo a mio fratello. Poi tramite amici che ci sapevano fare con la pirateria ho avuto modo di ascoltare l’intera discografia di Eminem, ma anche Offspring e Gorillaz per dirne alcuni, roba che poi ho perso per strada. Credo che molta musica mi sia arrivata grazie ai miei genitori: avevano un ristorante e mio padre aveva una marea di cd che metteva a seconda dell’atmosfera che voleva creare: nella catasta di compact disc c’ho trovato Paolo Conte, Ecstasy di Lou Reed, Vinicio Capossela, Michel Petrucciani, Muddy Waters, Albert e Freddie King e tanti altri, anche una cassetta di Elio e le storie tese. Invece tra i 33 giri di mia mamma hanno avuto la meglio John Lennon e De Gregori, della serie “ti piace vincere facile”, mia mamma è anche la stessa che mi ha fatto scoprire Rino Gaetano con “Sfiorivano le viole”.
A tredici anni formai il mio primo gruppo, che erano due gruppi in uno (a una certa il bassista usciva e ne entrava un altro, e si aggiungeva un chitarrista, roba da sfigati che suonano l’ultimo giorno di scuola nell’aula magna del liceo) che si chiamava forse Little Wind: cantavo i Sex Pistols e Clash perfettamente, le altre cover che facevamo le stonavo tutte!
A sedici anni entrai in fissa con il percorso obbligato dei cantautori italiani, Rino Gaetano principalmente e poi De André, e allora, un amico (lo stesso che mi fece scoprire il potere del vino rosso) mi regalò una chitarra classica che a sua volta aveva ricevuto da un amico più grande che l’aveva acquistata non perché avesse particolari velleità musicali ma perché si era preso una cotta per una che insegnava chitarra.
Però decisi che sarei diventato un cantautore quando ascoltai “Canzoni da Spiaggia Deturpata” de Le Luci Della Centrale Elettrica.
I primi demo li ho registrati piuttosto tardi, a ventisette anni, nello studio casalingo di uno dei miei due ex datori di lavoro: entrambi sono stati musicisti piuttosto famosi in tempi passati, a entrambi devo molto, insomma da lì mi sono sbloccato e ho capito cosa volesse dire incidere un pezzo, doverlo suonare e cantare per bene, e da lì non ho mai smesso di scrivere e suonare.
Devo molto anche ad altri due musicisti delle mie parti un po’ più grandi di me coi quali ho fondato due gruppi diversissimi tra loro. Non si finisce mai di imparare, anzi devo dire che a quasi 31 anni, fino ad ora non avevo mai nemmeno iniziato ad imparare.
Che cos’è un “kekkonakkero”?
Il “kekkonakkero” viene da una gag del cantautore livornese Bobo Rondelli, uno dei miei artisti preferiti: durante i concerti che ho visto faceva spesso questa gag di un personaggio effeminato che chiamava la checca nacchera, a me faceva ridere fino alle lacrime e non sono più riuscito a togliermi il nome dalla testa. Poi un giorno ho accompagnato un amico che lavorava per una lavanderia industriale a fare delle consegne in dei paesini sperduti, ho portato la chitarra e mentre tornavamo a casa, con una vecchia modalità nostra, abbiamo iniziato a sparare cazzate su tre accordi in croce finché mi venne idea di cambiare sesso alla “Checca Nacchera” di Bobo Rondelli.
L’anno dopo ho scritto e registrato il pezzo.
Credo che il kekkonakkero sia un personaggio dalla sessualità confusa, che si rifugia nell’alcol al calare del sole, momento in cui è travolto come tanti, da un’estrema malinconia che lo porta banalmente a nascondersi dietro un alter-ego da bar, festaiolo ma in realtà depresso, coglione ma in realtà intelligente.
Nel testo ho usato alcune parole che ho trovato nel libro “Sexus” di Henry Miller.
Messaggio per le giovani menti: non trasformatevi mai in un kekkonakkero, c’è il rischio di diventare schiavi di questa divertente ma sfiancante metamorfosi.
Il personaggio maschile socialmente alienato è molto presente nelle mie canzoni, sia come vittima che come carnefice, a volte è il narratore a volte è il soggetto, credo che tutto ciò derivi dal fatto che sono un individuo di sesso maschile che ha vagato parecchio nella solitudine, ma anche da molta letteratura beat e proto beat americana, John Fante, Bukowski, Hnery Miller, Kerouac, Hubert Selby Jr.; e forse sotto sotto anche dai personaggi scheletrici, svalvolati, sghembi e pazzoidi di Andrea Pazienza.
“Pacco Tombacco” unisce davvero tanti generi (cantautorato, blues, rock demenziale, synth pop); quali scene musicali ti hanno formato in particolare? Come definiresti il genere che fai?
“Pacco Tombacco” l’ho fatto pensando ai primissimi dischi di Beck (“Golden Feelings”, “Stereopatethic Soulmanure”, “One foot in the grave” e anche se più curato e inarrivabile, il super mitico “Mellow Gold”) e a “The Madcap Laughs” e “Barrett” di Syd Barrett. Sicuramente poi c’è un po’ del Tom Waits più sperimentale di Bone Machine, The Black Rider, Mule Variations, Real Gone e Orphans. CI sono assolutamente i Beatles (John Lennon su tutti credo), Bobo Rondelli e l’Ottavo Padiglione, Enzo Jannacci e Vasco Rossi, forse anche Lou Reed, Iggy Pop, David Bowie (?) e i Nirvana e qualcuno che mi sto dimenticando. Qualcuno ha detto Mac de Marco. Non lo so, forse è noioso tutto questo ma a me piacciono molto i classici oltre che alla musica indipendente: Ecco appunto ora dico una bugia che però fa figo: c’è molto Daniel Johnston in “Pacco Tombacco”.
Poi negli anni ho ascoltato davvero di tutto grazie ad amici fricchettoni che conservano la sacra abitudine di mettere un disco e sedersi sul divano ad ascoltarlo e poi dopo commentarlo: ho un amico che era in fissa col jazz, ho scoperto Thelonious Monk, Fela Kuti e molti altri grazie a lui, per dire, credo sia una fortuna avere degli amici che a volte vanno fuori di testa e ti accolgono con musica a tutto volume nella zona franca del loro salotto.
Comunque il disco nasce dalla voglia di fare una cosa volutamente fuori di testa, all’inizio pensavo di pubblicarlo sotto falso nome per spalmarci sopra un alone di mistero, ma poi mi sono detto: e se il mio alter-ego vivesse già in me? che senso ha dare un altro nome ad una parte di me che un nome ce l’ha e con la quale in qualche modo devo convivere?
Tornando alla domanda principale, la cosa più divertente è che un tizio a cui è piaciuto il mio album mi ha mandato un messaggio per complimentarsi. Ha detto che gli ricordavo molto Kurt Vile, Connan Mockasin e Celentano ed è tutto ok perché io non conosco mezza canzone di nessuno dei tre, o meglio, Celentano sì, purtroppo.
Come genere direi lo-fi, pop psichedelico o pop improbabile, ma non è una questione di genere, non lo è mai stata per me, per cambiare genere a quanto pare basta alzare o abbassare le energie o spostare una levetta o una rotella sull’amplificatore o su un pedalino. Mi fa ridere quando su wikipedia leggo cose come art-rock, baroque pop, protopunk o emo rap: se ti casca un pizzico di curry dentro la pentola dove stai cucinando fagioli e salsiccia non puoi parlare di piatto fusion tosco-indiano, credo piuttosto che tu abbia dato vita a un qualcosa di inusuale che a qualcuno può piacere e a molti può fare schifo.
A tal proposito “I wanna be your ninja bigap” e “Clerical (drink n2)” tendono verso il rap; sono da considerarsi più uno spostamento di stile o degli esperimenti?
Il rap è stato il primo genere che ho amato, scorre nelle mie vene così come l’amore per il surreale: partito con gli Articolo 31, poi Eminem, poi Fabri Fibra, Bassi Maestro e tanti altri. Quando ho sentito che anche Beck rappava in “Mellow Gold” ho pensato che volevo farlo anch’io. Anni fa quando ancora non era stata ben codificata, con un amico facemmo un pezzo trap ed alcuni pezzi rap: mi ha sempre dato quella leggerezza che spesso non c’è nel cantautorato. Spesso in Italia si associa il cantautorato alla serietà, un po’ come lo si fa con l’essere adulti, non ne vedo il motivo, si può essere più cose insieme e spiazzare continuamente l’ascoltatore, i marchi di fabbrica non mi sono mai piaciuti, si addicono ai prodotti pensati per le masse, come i panini del McDonalds o i contenuti che troviamo sui reels nei social network.
Comunque il mio è un rap dove si parla di psichedelia e cose che non posso esistere, come il Pay the Taxes e il Clerical, due drink fittizi inventati da me in divertenti serate estive in cui lavoravo al Congo Bar(citato in entrambi i pezzi), altro posto in cui ho scoperto questo mondo e quell’altro musicalmente parlando. Sono idee colorite e creative, per lo meno secondo me, non farei certo un pezzo dove rappo di quanto spacco e di quanto fumo, quello lo dico tra le righe delle canzoni che sembrano più normali. Forse l’ego lo riversiamo nelle cose che poi finiscono per rappresentarci di più, vai a sapere, ho perso il filo del discorso.
Per dare una piccola delucidazione, ricollegandomi anche al discorso delle ispirazioni, il titolo “I wanna be your ninja bigap” viene dalla cresi di “I wanna be your dog” di Iggy pop and the Stooges (la chitarra che ci ho fatto ricorda molto il celebre pezzo) e “Big in Japan” (anagrammato “ninja bigap”) di Tom Waits, dato che la beat box ricorda molto quella del pezzo del cantautore americano. Ma d’altronde, rubando una frase di qualcun altro, vorrei ricordare che i mediocri copiano mentre i geni rubano.
Hai all’attivo un album ed un EP; come mai non hai mai pubblicato dei singoli?
Non sono mai stato bravo con le pubblicazioni, mi spiego meglio: i pezzi dell’EP li avevo caricati su You Tube alcuni anni fa, poi per metterli in distribuzione digitale li ho raccolti in un EP fittizio che non è stato concepito tutto insieme, quindi prima di stare nell’EP erano dei singoli, giuro.
Non so se pubblicherò mai dei singoli, mi piace ragionare in termini di opera completa, sempre un po’ concept. I pezzi dell’EP sono state le prime avventure prodotte insieme a un amico di nome Drino che se la cava molto bene con l’home recording, non fanno parte di un disegno generale, erano cose di una vita passata che volevo registrare. “Pacco Tombacco” invece l’ho suonato, registrato e mixato tutto da solo, a parte il basso di “kekkonakkero” e la batteria di “baffo-tra-baffo”; il mio amico e famoso produttore Drino ha fatto il Master.
Sul finale di “Clerical”, prima di Reynolds (la Revolution 9 dei poveri) ci ho messo la poesia “gli spiriti dei morti” di Edgar Allan Poe : volevo scegliere una fine assurda e misterica, e quella dello scrittore di Baltimora mi pareva un’ottima fine: in preda a quello che forse poteva essere un delirium tremens, ha passato gli ultimi minuti della sua vita chiamando solo il nome Reynolds, e nessuno ha mai capito chi o cosa volesse dire. Se poi si ha la pazienza di arrivare agli ultimissimi minuti del disco si possono sentire le frasi del primo brano che ci riportano appunto al sogno nebuloso delle campagne del Filare (paesino di campagna maremmana vicino a dove abitavo fino a poco fa). Vedete, mi viene spontaneo pensare ad un’opera con un inizio e una fine, non a dei singoli buoni per la radio, questo è un vero dispiacere per le mie tasche ma anche per i miei genitori che forse si aspettavano di avere in casa un Jovanotti e invece si sono ritrovati una radio rotta che emette suoni strani.
Dal vivo come presenti i tuoi brani? Ti accompagna qualcuno sul palco?
Al momento mi esibisco da solo, con una chitarra semiacustica Washburn hb30, armoniche a bocca in varie tonalità, una pedaliera digitale mooer ge200 e una pedaliera boss per la voce; dipende da dove sono a suonare mi porto anche un amplificatore molto pesante e ingombrante che tutti odiano perché emette un suono simile a delle ferraglie rugginose che cadono su un’acciaierie da un aereo che viaggia a 3000 chilometri dal suolo terrestre. Per tre brani utilizzo delle basi, che non sono altro che le stesse tracce del disco senza voce e senza le parti di chitarra elettrica. Ho molti brani che non ho ancora registrato e come one man show, se il pubblico è abbastanza brillo, posso suonare per ore.
Sto cercando di mettere su una band dalle ceneri di una vecchia formazione che avevo: chitarra e voce, basso e batteria. Voglio fare i salti mentre tiro le schitarrate sul palco, non lo fa più nessuno, ci siamo illusi che fare rock sia una cosa da virtuosi e sognatori patinati, invece penso che sia un’attività malsana portata avanti da gente con problemi, gente puzzolente e sudata che è incazzata nera perché lavora in fabbrica o perché non scopa, tutta questa retorica su come vanno fatte le cose a volte straccia l’anima stessa delle cose in questione, “Pacco Tombacco” è fuorilegge a partire dal nome che porta e forse vuole ricordare ai puristi che si può dire qualcosa anche senza mettersi le piume in culo come diceva Francesco Guccini. Prometto, soprattutto a me stesso, che il prossimo disco sarà meno caotico e forse registrato meglio.
a cura di
Lucia Tamburello